Roberto, il partigiano del 25 marzo.


Roberto, il partigiano del 25 marzo.



Roberto aveva da poco superato il venticinquesimo anno di età, solido, ben piantato sulle gambe e un discreto alpinista. Non aveva mai "fatto la morosa", la sua passione la riservava per il podere del padre, Giacomo, e per le sue montagne. Era stato richiamato alle armi nel 1940 e destinato al fronte francese nella guerra semiseria combattuta dalle truppe italiane che occuparono, senza trovar resistenza, le principali città della Costa Azzurra.
Ben più aspre furono le battaglie sul versante alpino, alle quali, Roberto, ebbe la fortuna di non partecipare.

Per lui, di famiglia socialista anche se la politica non l'aveva mai interessati, fu come togliersi un gran peso dalle spalle. La dichiarazione di guerra ad un Paese pressoché già sconfitto dai tedeschi gli appariva come un'infamia e, questo suo pensiero, non lo nascondeva ai suoi commilitoni che si atteggiavano ad eroi per quei pochi colpi di fucile sparati più per intimidire che per colpire il nemico.

Trascorse, pertanto, i successivi tre anni di naja al sole della riviera, tra esercitazioni, marce, turni di guardia alla caserma e sonnacchiosi pomeriggi in branda.

Nei brevi periodi di licenza a casa, in famiglia si ascoltavano in gran segreto e da una vecchia radio, nascosta in una vecchia madia della farina per evitare la requisizione, le trasmissioni radiofoniche degli alleati e, proprio in un pomeriggio di settembre ebbe la fortuna di sentire, dalla voce del Maresciallo Badoglio, la notizia dell'armistizio.

La prima reazione fu un senso di gioia; finalmente avrebbe smesso quella divisa odorante di caserma, di rancio rancido e di camerata umida e malsana. Poteva tornare ai suoi campi e alle sue escursioni alpine nelle valli dell'Ossola.

Poi lo assalì l'angoscia: "come avrebbero reagito i reparti tedeschi presenti nelle caserme del paese?".

Aveva notato che immediatamente dopo l'annuncio radiofonico, autocarri e moto sidecar con le mitragliatrici piazzate si erano posizionate nei crocevia e nei punti strategici all'ingresso del paese tanto da impedire sia l'uscita che l'entrata a chiunque. I pochi che cercavano di passare venivano fermati e intimati a rientrare nelle loro abitazioni: "Ausgangssperre, schnell".

Roberto si trovò isolato, come tanti altri suoi camerati, dal comando della sua armata e non in grado di ricevere ordini e informazioni su ciò che avrebbe dovuto o potuto fare.
Raggiungere la Francia era impensabile, senza dubbio le ferrovie erano sotto il controllo tedesco e fare il percorso a piedi era da escludere considerata la distanza e, ancor più difficile, sottraendosi ai posti di blocco tedeschi che sicuramente sarebbero stati installati.

Il giorno successivo rimase chiuso in casa, poi con maggior coraggio,il terzo giorno si svestì dalla divisa grigioverde e in tenuta borghese fece un piccolo giro attorno alla piazza del paese. Fu allora che sentì voci allarmanti su perquisizioni nelle abitazioni e di rastrellamenti riguardanti gli uomini, giovani e vecchi, che  potevano essere utilizzati per lavori bellici. Qualcun, sottovoce, indicò la Germania come destinazione per questi disgraziati.

Doveva prendere una decisione: "Nascondersi (per quanto tempo?) in casa o tentare di raggiungere la sua montagna dove aveva conoscenze e amicizie." Roberto scelse quest'ultima soluzione, non voleva fare la fine del topo, chiuso in solaio o in cantina e angosciarsi per ogni rumore di scarpone ferrato che prima o poi avrebbe sicuramente calpestato il suo pavimento in legno.

Le perquisizioni nel frattempo si facevano più serrate e da un finestrino della soffitta, dove aveva trovato provvisoriamente rifugio, notò autocarri carichi di suoi compaesani avviati alla stazione ferroviaria. Era tempo di agire!

La notte stessa, aiutato da un cortina di nebbia che improvvisamente era calata sulla vallata, Roberto calzò gli scarponi, fedeli compagni di tante scalate, prese il capiente zaino militare, lo caricò con indumenti invernali, maglioni e calzettoni di lana, vera lana, e sgusciò nel buio percorrendo un sentiero tra i campi che lo allontanò dal paese e dai "crucchi".

Camminava spedito, Roberto; al levar del sole era lontano una trentina di chilometri dal  paese  e all'imbocco della valle.

Era triste. Aveva lasciato la famiglia, fratelli, sorelle e il vecchio padre, Giacomo,  che lo aveva consigliato dicendo: «Quello là voleva un "posto al sole", ha perso il sole dell'Etiopia e quello della Libia. Ora perde pure quello della Sicilia. Cerca il tuo posto al sole, su in montagna!».

Voleva risalirla avvicinandosi al confine Svizzero, magari facendo tappa in qualche paesino verso Macugnaga dove avrebbe trovato rifugio presso alcuni amici che, con lui, avevano condiviso escursioni sulle cime circostanti. Trovare un valico dal quale passare oltre confine non sarebbe stata un'impresa ardua per  lui che conosceva perfettamente quei sentieri.

La Svizzera rimase nelle intenzioni. Venne coinvolto nelle vicende ossolane, le incursioni dei partigiani alle postazioni tedesche, alle quali prese parte suo malgrado, e alla sorte della Repubblica della Val d'Ossola sino alla capitolazione di fine novembre. Era tardi ormai per superare i valichi alpini e riparare in Svizzera.
Seguì i gruppi partigiani che ripararono, per svernare, in val Divedro.

Nel frattempo le notizie che riceveva dal suo paese erano sconfortanti e angosciose: casolari bruciati e intere famiglie trucidate per rappresaglia, vagoni piombati carichi di uomini inviati nei campi di lavoro della Germania. La ferocia tedesca si era abbattuta sugli inermi contadini accusati di aver dato aiuto ai partigiani e aver favorito la loro fuga verso la parte alta delle vallate. Le prezzolate spie fasciste indicavano nomi e indirizzi e le pattuglie naziste facevano il lavoro sporco.

Non aveva notizie della sua famiglia.  La neve iniziò a scendere copiosa e, su nella baita dove la sua Brigata aveva trovato rifugio, il tempo era scandito da lunghi sonnolenti pomeriggi a discutere sul futuro e, ciascuno, sulle proprie speranze.

Roberto ascoltava le "lezioni" di Andrea, il Commissario Politico che parlavano di libertà, giustizia, democrazia. Per Roberto queste parole significavano poter lavorare indisturbato nei campi, discutere liberamente senza essere accusato di disfattismo o, peggio ancora di tentata sovversione. Le altre idee le aveva già ascoltate tante volte dal padre e dai fratelli a tavola durante la cena. Roberto le ascoltava senza intervenire ma era evidente che il suo pensiero era da tutt'altra parte, su tra i monti con i compagni di cordata o tra gl'improvvisati giacigli notturni in attesa dell'alba per affrontare una parete, una cima.

Le ultime notizie da casa, portate da un conoscente che era riuscito a salire prime di una copiosa nevicata, non erano rassicuranti. Il padre Giacomo ammalato e i fratelli nascosti per non essere rastrellati e fatti schiavi nei lager tedeschi.

La primavera colse, quasi inaspettata, il gruppo di partigiani un mattino di metà marzo. Il cielo sgombro di nubi, l'aria frizzante ma non fredda che con il sole man mano si riscaldava. La neve sul tetto si trasformava in piccoli rivoli d'acqua.

Roberto non perse tempo; raccolse alcuni indumenti nello zaino e, nonostante gli avvertimenti e le perplessità dei suoi  compagni decise che sarebbe sceso a valle per controllare la situazione.

Dopo molte ore di cammino tra la neve ancora abbondante sugli alti sentieri e sui sentieri scoscesi della montagna, raggiunse il fondo valle e, con molta circospezione si diresse verso il paese.

Nella foschia serale osservò attentamente la sua cascina con la stalla accanto, l'abitato avvolto nella bruma serale. Nessun lampione acceso e il rumoroso silenzio del coprifuoco. Per evitare la strada principale che conduceva in piazza, percorse un sentiero tra gli orti.  Con cautela, molta cautela, superò le prime abitazioni alcune delle quali con gli evidenti segni delle rappresaglie tedesche.

 Superata la casa del mugnaio, non si accorse di una pattuglia tedesca, mimetizzata dietro i ruderi di un'abitazione bruciata e, inevitabilmente, cadde nell'imboscata. Automaticamente cercò d'imbracciare lo Stein che portava a tracolla ma una raffica di mitraglia lo colse in pieno petto. L'ultima visione di Giacomo fu il campanile della chiesa, poi il buio.

Era il 25 marzo 1945, un mese dopo la guerra cessava, Roberto avrebbe compiuto trent'anni.











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